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A riavvolgere il nastro della sua vita non basta un romanzo per raccontarla tutta.
Siciliano di Catania – “di Misterbianco, ai piedi dell’Etna”, tiene a precisare – Filippo deve compiere 66 anni ma la schiena curva e la barba lunga e folta gliene fanno dimostrare almeno dieci in più, quanti sono gli anni in cui ha vissuto in strada.

A Milano Filippo ci arriva che è appena un ragazzino, seguendo le orme del fratello maggiore di sedici anni e dei compaesani che su al Nord sognavano di trovare l’America e di conquistarsi il loro posticino al sole. “Più camminavo e più la città mi incantava. La prima volta che ho alzato lo sguardo sulle guglie del Duomo, mi sono detto: “Solo il Signore può mandarmi via di qua”.

Ma tirare avanti si rivela un’impresa: tanta fatica, guadagni magrissimi. Alla fine Filippo si convince a partire di nuovo, alla volta della Germania. Deve sbarcare il lunario, perché nel frattempo ha messo su famiglia, moglie e tre figli, e la buona volontà non gli manca. Fa l’imbianchino, il piastrellista, il muratore, l’operaio in una fabbrica che produce pezzi di ricambio per automobili. “Si lavorava a cottimo, 10 anche 12 ore al giorno, più producevi e più venivi pagato, e io modestamente ero una macchina. Però non capivo un’acca di tedesco e farsi rispettare era un problema”.

Con i risparmi, rientrato in Italia, tenta la fortuna e acquista la licenza come venditore ambulante: “ne avevo abbastanza di padroni sopra la testa”. Comincia con un furgoncino di giocattoli, poi fa il salto della vita: l’acquisto di un food truck per vendere panini e bibite nelle piazze e fuori dagli stadi. L’attività ingrana perché “sapevo come esporre la merce e far ridere la gente” fino al giorno in cui arriva il blackout. Un incidente devasta il camion, “danni enormi che non mi sono mai stati completamente risarciti”, e subito dopo sopraggiunge lo sfratto dall’appartamento intestato alla moglie da cui anni prima si era separato.

Sono stato un barbone, ho mangiato rabbia ma ricevuto anche tanta solidarietà dalle persone. I militari, soprattutto. Mi facevano trovare una brioche e due bottigliette d’acqua ogni mattina. Una volta, accanto a dove dormivo, qualcuno mi ha lasciato un plaid ancora nuovo con l’etichetta. Si è avvicinato piano, per non svegliarmi”.

“L’estate è sopportabile ma col freddo sarei morto se fossi rimasto a dormire sul marciapiede”. Filippo impara in fretta l’arte di arrangiarsi, la notte si ripara sui vagoni dei treni e all’inizio del piano freddo cerca un posto letto nei dormitori. E’ così che entra in contatto con il Centro Aiuto della Stazione Centrale del Comune di Milano che lo indirizza ai servizi della città e gli presenta Progetto Arca.

Filippo e Paolo housing first



Attraverso gli operatori del CASC, Filippo stringe la mano a Mario e Paolo, referenti del progetto di Housing First della Fondazione. “Mi hanno subito ispirato fiducia” racconta Filippo che di quel primo colloquio ricorda la sua battuta finale: “Fatemi un regalo che non vi faccio fare brutta figura”.
Tre giorni dopo, è davanti alla porta di quello che sarebbe diventato il suo appartamento: “Apri – mi hanno detto – è casa tua”.
“Per la prima settimana mi sono sentito disorientato. Non ci potevo credere. Quando hai un letto, un bagno tuo, il frigo e la lavatrice, una cucina dove ti prepari quello che vuoi e la televisione a tenerti un po’ di compagnia, cosa puoi pretendere di più?”

E’ tutto pulito, tutto in ordine e se qualcosa non funziona, Filippo s’industria per aggiustarlo con l’esperienza accumulata negli anni. “Ogni tanto vado al magazzino in via Sammartini, Donna Anna (Anna, referente del magazzino di Progetto Arca ndr) mi tiene da parte oggetti di seconda mano che qualcuno ha portato perché non gli servono più. Un pezzo alla volta ho arredato la mia casina”.

All’una il pranzo è pronto. Pasta al sugo, rigorosamente fatto in casa. “Ci aggiungo qualche fogliolina d’aglio per insaporirlo, è la mia medicina” e ci mostra le piantine che stanno germogliando vicino al lavello.
L’altra sua passione è la musica popolare, confida, mentre recupera la canzone di un cantautore catanese da farci ascoltare. “La mettevo sempre quando lavoravo sul camion dei panini, era come un richiamo, la mettevo su e la gente arrivava. Stare in mezzo a loro mi faceva sentire vivo. Quel camion per me era tutto, era la mia vita”.

E mentre lo racconta, le lacrime solcano quel viso che sembra bruciato dal sole: “non sono triste, anzi, queste sono lacrime di gioia”. E’ il momento di riprendere in mano la sua vita e tornare a guardare le guglie del Duomo con l’incanto del primo giorno.

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