Massimo è psicologo e dal 2013 collabora con Progetto Arca occupandosi di affiancare le persone senza dimora nel percorso di ripresa in mano della propria vita. Durante l’emergenza Covid-19, ha continuato ad offrire ascolto e supporto a chi non aveva una casa dove proteggersi e stare al sicuro. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza umana e professionale.
Perché hai scelto di lavorare con persone senza dimora?
E’ stato un incontro casuale che mi ha influenzato profondamente, sia a livello umano che professionale. Quando ho iniziato il mio percorso con Progetto Arca, i servizi dedicati a chi vive in strada erano soprattutto di prima accoglienza e la figura dello psicologo non era stata ancora introdotta nei Centri. Come spesso accade quando si inizia un percorso insieme, ci si influenza a vicenda e si migliora passo dopo passo: posso dire che come professionista devo molto a queste persone.
Come si rapportano a te gli ospiti?
Ho incontrato persone aperte, timorose e refrattarie. Alcuni mi chiamano “strizzacervelli”, per altri invece sono il “custode” di un luogo speciale di parole libere da pregiudizi, dove possono ritrovare le coordinate per far ripartire la propria vita.
Perché alcuni rifiutano l’accoglienza e restano in strada?
Non c’è una risposta sola perché le ragioni sono tante e personali. Spesso alla base c’è una reticenza ad abbandonare quello che si conosce e che, per quanto sia una situazione di disagio e di dolore, è qualcosa di noto e che nel tempo si è imparato a gestire. Cambiare è difficile. A volte lasciare la strada significa anche accettare di avere una responsabilità per la propria condizione e questo è il passo più faticoso, non tutti riescono a farlo.
Non dimentichiamo, infine, che le persone che restano in strada sono tutte fragilissime, spesso soffrono di disturbi psichiatrici non diagnosticati, e quindi non trattati, hanno problemi di dipendenze, gravi disturbi di personalità, deficit cognitivi, una profonda deprivazione affettiva… Molti di questi disturbi convivono insieme, la persona senza dimora è nella stragrande maggioranza dei casi una persona multi problematica.
Qual è il senso del lavoro di uno “psicologo di strada”?
Il senso del mio lavoro sta nell’aiutare chi ho davanti a concentrarsi sul suo valore umano in modo che possa trovare la spinta interiore a cambiare la propria condizione. Perché questo accada è necessario guardare l’altro come persona, facendo attenzione a non identificarlo con il suo disagio psicologico: una persona non è mai la sua malattia. Occorre riconoscerla nelle sue fragilità come nelle sue risorse e far leva su queste per motivarla e sostenerla nel suo cambiamento.
Come è cambiato il tuo lavoro in questi mesi di emergenza sanitaria?
La quarantena è stata particolarmente dura per i nostri ospiti. Non avevano una casa propria dove affrontarla, dovevano restare chiusi h24 con persone che non sono la loro famiglia, fragili e anche più fragili di loro, e naturalmente avevano paura come tutti.
Insieme all’equipe del Centro, abbiamo lavorato tanto sulla prevenzione, per sensibilizzarli sulle misure da tenere per non esporsi al rischio di contagio, in primis non uscire mai dalla struttura. Un grande lavoro è stato anche fatto per cercare di contenere il più possibile irritabilità, ansia e stress che avrebbero potuto amplificare i disturbi di cui già soffrono. Con alcuni ospiti, che pativano di più la situazione di stallo, è stato necessario aumentare la frequenza degli incontri, con altri, insieme ai medici che li seguono, abbiamo individuato nuove terapie per evitare che lo stress prendesse il sopravvento. Ci sono state anche persone che si sono ammalate di Covid-19. Andavano rassicurate e preparate al trasferimento in strutture ospedaliere. Servivano le parole giuste e trovarle è stato il compito più difficile e delicato.