Erano le 4 di pomeriggio e la situazione pareva calma: il momento giusto per andare a cercare da mangiare…
Faccio appena in tempo ad arrivare nell’androne di casa che mi imbatto in un gruppo di militari russi, stanno trasportando un loro compagno gravemente ferito al petto, li sento urlare: “aiutateci, aiutateci”.
In quell’istante, davanti a me, non c’è un soldato, un nemico. C’è solo un ragazzo di 20 anni in fin di vita, che può essere mio figlio. Sta morendo e io sono impotente. È stata quella la prima volta in cui ho pianto dall’inizio della guerra.
Difficile dimenticarsi quel 24 febbraio: la mattina mi preparo come ogni giorno, per incontrare i miei studenti nel liceo dove insegno storia. Sulla porta mi raggiunge la telefonata di una collega: Ma oggi andiamo lo stesso a lavorare? Io ignara: Sì, perché? Accendo la televisione e in un attimo capisco il senso di quella domanda: la guerra è scoppiata, ed è a casa nostra.
Penso spesso alla vita felice che avevo costruito prima che quel giorno la distruggesse:
Avevo 27 anni quando sono partita da Mariupol per lavorare a Milano, dove ho conosciuto l’uomo che è diventato mio marito. Nel 2018 siamo tornati in Ucraina, desideravo stare vicino ai miei genitori anziani e riprendere con l’insegnamento, il lavoro che amo ma che in Italia non ho mai potuto praticare.
Il 24 febbraio ha segnato la fine di tutto. Bombe notte e giorno, rumore di aerei sopra la testa per cui ti chiedi ogni volta dove sganceranno il missile. Niente acqua, luce, gas e telefono. Negozi e centri commerciali saccheggiati dalla gente che cercava di accaparrarsi qualsiasi cosa, anche gli scaffali, per bruciarli e riscaldarsi perché stavamo a otto gradi sotto zero. E poi la fame. Il cibo ha cominciato presto a scarseggiare, mio padre cucinava sul fuoco in cortile le scorte che razionavamo, l’acqua andavamo a raccoglierla al fiume. Case, strade, scuole, ospedali: tutto era diventato un bersaglio. Ho visto un’intera via completamente rasa al suolo un giorno con l’altro. Ho visto una madre fuori di sé con il figlio neonato in braccio che piangeva disperato per la fame.
Dopo 40 giorni in questo dramma siamo riusciti ad evacuare e a metterci in salvo. Mio padre non ha voluto seguirci in Italia perché “casa è casa” e lui ogni settimana va a controllare che la sua sia ancora piedi per poter rientrare quando la guerra sarà finita. Noi siamo tornati a Milano.
Con mio marito e mia figlia siamo ospiti di parenti e ho la fortuna di aver trovato lavoro come operatrice in un Centro di accoglienza per rifugiati gestito da Progetto Arca. Qui aiuto tanti miei connazionali, soprattutto con la lingua, li accompagno a regolarizzare i documenti, servo il pranzo in mensa, gioco con i più piccoli. Ho sempre creduto che ad aiutare il prossimo aiuti anche te stesso, adesso ne ho la prova.
Mio marito ed io non abbiamo però rinunciato ai nostri progetti. Comunque vadano le cose, un giorno torneremo a Mariupol: il futuro della mia famiglia è lì, la guerra non può cancellare anche i sogni.